(chiara novelli).“Il miglior narratore italiano è Vittorio De Sica”, afferma Cesare Pavese. Già con “Ladri di biciclette”, nel 1948, il vaticano si scaglia contro De Sica perché «una Messa dei poveri alla quale intervengono, colti in atteggiamenti paternalistici e caritativi, dignitari del clero e pie dame dell’aristocrazia era inaccettabile»: era troppo vero infatti, tanto da arrivare a rimproverare le autorità per non averne bloccata l’uscita del film nelle sale. Pietro Ingrao, direttore de l’Unità, decide di inserire Vittorio De Sica nell’elenco dei grandi “eretici” della nostra storia, perseguitati dalla Santa Sede. Il film “Umberto D.”, siamo nel 1952, vede scendere in campo personalmente l’allora sottosegretario alla cultura Giulio Andreotti a difendere la nuova Italia della Democrazia Cristiana, un’Italia dell’ottimismo e della fine della sua condizione di povertà e affermare che: “ …se nel mondo si sarà indotti erroneamente a pensare che quella di Umberto D.è l’Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria.” Dopo di che il film fu boicottato presso i maggiori distributori impedendo che venisse premiato alle varie rassegne festivaliere e la pessima pubblicità ne impedì il successo anche nelle sale. La società italiana non è cambiata affatto, ma la politica clericale e censoria di allora ha fatto si che oggi, lasciando la cultura letteraria libera, in quanto comunque considerata di nicchia, ha lavorato pesantemente contro il nostro patrimonio teatrale e cinematografico, diffamandolo, riducendolo a puro spettacolo di intrattenimento, spesso di cattivo gusto, che avrebbe certo bisogno di altri tipi di censure, ma che riceverà fiumi di denaro dallo Stato e dalle grandi distribuzioni. “Odio alla cultura”, scriveva Vitaliano Brancati. Con “Umberto D.”, con cui Vittorio de Sica, assieme a Cesare Zavattini alla sceneggiatura, ha realizzato il loro capolavoro, verrà sancito l’atto finale della coraggiosa sfida del cinema come forma d’arte di Rossellini, Visconti, De Sica, quella che voleva raccontare, senza le sciocchezze e gli abbellimenti del ventennio dei telefoni bianchi, ma nell’intelligenza poetica della realtà come arte, nella sua intimità lirica, nel suo ritmo dolente, le complessità della società italiana del dopo guerra. Una società che metteva al centro l’uomo però. L’innovazione che la macchina da presa, indugiando sulla quotidianità dei dettagli, fa, per raccontare le infinite sfumature dello stato d’animo dei personaggi rendendo eroi i piccoli uomini e donne dei nostri giorni, i “noi tutti” che lottiamo con la vita e la società, è la delicatissima e potente chiave di svelamento e approfondimento critico della nostra situazione e tutti si sono ormai dimenticati che la tanto osannata “nouvelle vague” di Truffault, con le sue innovative tecniche filmiche e tematiche, la frammentazione scenica dei fatti della quotidianità, “i fatti qualsiasi”, come li chiamava Zavattini, non è altro che l’invenzione neorealista dei nostri grandi registi. Valori profondi e universali quelli del ragionier Umberto, il nome del padre di De Sica a cui è dedicato il film, Domenico Ferrari (Carlo Battisti, professore di glottologia dell’Università di Firenze), che prova a sopravvivere con una misera pensione dopo una vita di lavoro, quelli del decoro, della dignità, dell’onestà, ma la società italiana disprezza la povertà, la miseria, è priva di misericordia, di solidarietà, emargina, disprezza l’indigenza come fosse una malattia contagiosa da cui fuggire, disprezza il debole, che sia Umberto D., che sia il suo piccolo cane che lui non riesce a mantenere, che sia il bambino non ancora nato della domestica Maria, unica voce affettuosa in un’Italia fatta di personaggi tronfi, furbi e arroganti. Paese di uomini che non vogliono vedere il nostro, ma che preferisce dimenticare, nella conformità ipocrita di un perbenismo complice. Nessuno vorrà i nostri eroi. Non gli resterà che la vita.
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