da “Diari di Cineclub”, n. 42, settembre 2016
(angela felice*) Mentre si celebrano le Olimpiadi di Rio, piace rinverdire tre articoli poco noti in cui, su “Vie Nuove”, Pasolini raccontò la kermesse agonistica che si tenne a Roma nel 1960: un’edizione “mitica”, esaltata da Livio Berruti, da un Abele Bikila maratoneta a piedi scalzi, dalla stella emergente di Cassius Clay. Ma per Pasolini quell’occasione fornì soprattutto lo spunto per una riflessione sulle caratteristiche dello sport moderno, ormai segnato dal meccanismo dello spettacolo. Innanzitutto, egli presenziò all’inaugurazione olimpica e assistette alla parata iniziale delle squadre nazionali, sfilate in rigoroso ordine alfabetico («istituzione meravigliosa!», esclama): «ogni rappresentativa ha un costume diverso: calzoni bianchi e giacca blu, calzoni grigi e giacca scura, calzoni chiari e giacca giallina orlata di rosso: una infinità di combinazioni, che solo il mio amico Arbasino sarebbe in grado di descrivere con dovuto commento e col dovuto spirito. Ma l’effetto è estremamente piacevole: tanto più che ogni rappresentativa ha una piccola variante, una piccola trovata: le canadesi hanno in mano delle bellissime borsette; i polacchi agitano dei fazzolettini colorati, gli indiani hanno degli altissimi turbanti arancione: il sole fonde tutto, e non c’è un solo costume di cattivo gusto, di solo effetto. […] Il Giappone, Cuba, parevano portare dentro lo stadio, così puro, così anonimo, la concretezza vivente delle recenti battaglie, delle recenti morti, delle recenti passioni: ma tutto come purificato, diventato esperienza e dolore di ognuno di noi, e, come tale, superato, vinto dall’incalzare del tempo e della storia». Il titolo dell’articolo è Un mondo pieno di futuro: è l’intero mondo che Pasolini vede sfilare, un mondo nuovo con i numerosi paesi africani che di recente hanno conquistato l’indipendenza, con gli stati più poveri che stanno iniziando a avere «una loro vita civile», con gli Usa e l’Urss che si apprestano a «possedere il cosmo». Pasolini non tace gli aspetti sgradevoli della manifestazione, quando rasenta la retorica e il provincialismo (tra essi il benvenuto del ministro Andreotti, «difficile immaginare un discorso più retorico e più provinciale», e il canto dell’Inno olimpico, «un relitto wagneriano da stringere il cuore»), ma conclude ponendo l’attenzione sulla «parte bella: questa giovanile, colorita visione del mondo riunito in una pacifica sfida, questa evocazione dei momenti storici, come staccati dal male e dal bene, quasi pronti a far parte di una coscienza più alta e serena, quella che li giudicherà domani» (1).
Tuttavia, in un secondo intervento (Dramma sul filo), Pasolini confessò di sentirsi «un pessimo spettatore di gare atletiche», a parte qualche raro momento di emozione, come nella corsa dei quattrocento metri combattuta «fino alla disperazione» dal nero americano Davis contro il biondo tedesco Kauffmann, infine vincitore: «Ma io pensavo –commenta Pasolini- ai generali tedeschi e a Erhard, e non ho potuto ammirare quel povero biondo: non l’ho proprio potuto ammirare. Quella sua ostinata passione, quella sua furia disperata, mi hanno fatto paura». La ragione di quella scarsa partecipazione? Il fatto è che «da troppo tempo lo sport è spettacolo. […] Oggi, pian piano, nulla di ciò che è fisico è necessario, dato che tutto è stato sostituito dalla macchina. […] Ed è quindi divenuto spettacolo, per l’esigenza di masse enormi». E allora, per questo Pasolini poco coinvolto, la soluzione migliore è uscire dalla conca gremita dello stadio («un timballo di folla», lo chiama Moravia) e ritrovare il vero divertimento nella dimensione dello sport spontaneo e popolare. Così Pasolini rievoca lo stabilimento Ondina di Ostia dove qualche giorno prima egli ha assistito a gare improvvisate tra un gruppo di italiani, «nati stanchi, ragazzi della periferia», e un gruppo di ungheresi, in mezzo all’esaltazione scalmanata di un piccolo gruppo di tifosi popolari. Dopo la vittoria degli ungheresi, «colossi selezionati, potenti e meticolosi», le donne italiane, «lanciando parolacce in romanesco», hanno sfidato le donne ungheresi al tiro alla fune e hanno vinto. Lì sì che, per Pasolini, si è tenuta «una vera riunione sportiva: lo sport ideale ha queste dimensioni» (2). Pasolini interviene ancora sul clima sportivo della Roma delle Olimpiadi con un terzo articolo, Tradì i pattini per la bicicletta. In questo caso, fuori ormai da ogni stadio, egli racconta di una intervista avvenuta durante una cena «in un locale dove sono stato mille volte con gli amici consueti». L’intervistato è il ciclista Viktor Kapitonov, che si è appena aggiudicato la prova su strada, dando alla Russia la prima grande vittoria in una manifestazione ufficiale. Ha le caratteristiche fisiche, la goffaggine timida e lo sguardo di un adolescente che al poeta-cronista ricorda gli amici friulani: «Ogni volta che apre bocca mi pare che debba dire una frase friulana». Il campione olimpico racconta le sue origini da dilettante della bicicletta, usata nei mesi estivi per tenersi in esercizio quando era un campione del pattinaggio sul ghiaccio. Pasolini è interessato a conoscere i motivi della mancanza di forme di professionismo sportivo in Russia, e gli viene risposto «con vivace euforica ingenuità» che «lo sport deve servire solo a migliorare fisicamente, a spronare a una pacifica competizione, non altro». Un dilettantismo da difendere, dunque, tanto che, a scanso di equivoci, Pasolini si sente in dovere di puntualizzare che anche lui la pensa alla stessa maniera e che certo non difende il professionismo. Al termine dell’incontro il ciclista e il suo allenatore Scelesnev lo fanno felice quando gli chiedono che li portasse a vedere qualcosa di Roma: «istintivamente vado verso la periferia, e piano piano, arriviamo alla Borgata Gordiani, chiacchierando sempre di sport, delle prime vittorie dei russi nell’atletica, delle gare di domani. “Dormono tutti?” mi chiedono, come passiamo tra le infangate, miserande casette della borgata perse nel livore della notte, mute. “No!” dico io “qui c’è una specie di coprifuoco. Scendiamo dalla macchina, nel piazzale circondato dalle casette degli sfrattati, chiuse nel loro miserabile orticello. Lontanissime, splendono le luci della Roma olimpica. Non dormono, no, alla borgata: se ne stanno, esclusi dalla città, come rintanati tra le loro casette. Vedendoci, un po’ alla volta vengono fuori, si raccolgono intorno, è una piccola folla: sono quasi tutti giovani, e come riconoscono Kapitonov, gli si raccolgono intorno, festosi, nei loro eleganti stracci di malandrini. Ah, quante cose ci sarebbero da dire…» (3).
Angela Felice
Note
- “Vie Nuove”, 3 settembre 1960, in Romanzi e racconti, a cura di W.Siti e S.De Laude, Mondadori, “Meridiani”, Milano, 1998, pp. 1527-1531.
- “Vie Nuove”, 17 settembre 1960, cit., pp. 1532-1536.
- “Vie Nuove”, 10 ottobre 1960, cit., pp. 1537-154
* Angela Felice dirige dal dal 2009 il Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa della Delizia. Nel 2015 è stata nominata dal ministro Dario Franceschini a componente della Commissione tecnico-scientifica per le celebrazioni nazionali in ricordo di Pasolini a quaranta anni dalla morte. Oltre a un nutrito numeri di saggi in riviste di settore, ha pubblicato, tra l’altro, Introduzione a D’Annunzio (Laterza), Racconti italiani dell’800 e del ‘900 (Principato), Il teatro friulano. Microstoria di un repertorio tra Otto e Novecento (con Paolo Patui, Forum ed.) e ha curato, per Marsilio, L’attrice Marchesa. Verso nuove visioni di Adelaide Ristori; Pasolini e la televisione; Pasolini e il teatro (con Stefano Casi e Gerardo Guccini); Pasolini e l’interrogazione del sacro (con Gian Paolo Gri); Pasolini e la poesia dialettale (con Gian Paolo Gri); Pasolini e la pedagogia (con Roberto Carnero, 2015). Nel 1995 le è stato assegnato il Cavalierato al Merito della Repubblica Italiana.
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