Dalla Cinematheque al cimitero di Montmartre
(marino demata) Il cimitero di Montmartre è un’oasi di pace all’interno di un quartiere pieno di vita e di dinamismo, con molti rumori e con la tipica vivacità multietnica. L’epicentro del quartiere è il classico Moulin Rouge, uno di quei luoghi che hanno segnato la storia e la vita del quartiere e della intera città. Una delle caratteristiche è che proprio dal lato di quel locale cominciano ad inerpicarsi le strette strade che portano in cima, nel cuore della turistica Montmartre più che mai ostaggio dei pittori di strada.
Eppure all’interno del cimitero non ci si rende conto della vita che pulsa rumorosa all’esterno e la quiete e la pace hanno una assoluta prevalenza. O almeno questa è la sensazione che ti trasmette il girare tra le tombe di tanti uomini illustri da Zola a De Maupassant a Stendhal, a Dumas, tanto per citarne alcini che hanno illustrato la letteratura di Francia. Ma lo scopo della visita era un altro: sostare, per la prima volta, sulla tomba di François Truffaut, nell’ambito di una giornata parigina che avevo deciso di dedicare per intero al fondatore della Nouvelle Vague.
Mi ha colpito innanzitutto la vistosa semplicità (l’ossimoro mi sembra più che mai appropriato!) della sua tomba: una lastra di marmo nero con sopra inciso il nome e il cognome: solo questo e nient’altro. Nessuna frase di circostanza, nessun accenno alla sua vita o alle sue opere. Puoi leggere solo semplicemente il suo nome e cognome proprio come lui avrebbe voluto. E a stento, più sotto e discosto trovi la data di nascita e morte.
Non so perché ma due sono i sentimenti dei quali mi sono sentito pervaso e che, in certo senso, avrei trasmesso a Truffaut se in qualche modo ne avessi avuto la possibilità: in primo luogo gli avrei manifestato lo stupore e la stranezza a leggere per la prima volta il suo nome su una lastra di marmo scura, mentre fino a quel momento lo avevo letto decine di volte nei titoli di testa dei suoi film. E’ vero che i suoi film sono solo 21, ma molti di questi ho avuto il piacere di rivederli numerose volte. Ora vedere il suo nome inciso su una tomba ha provocato un senso di ambiguità e di stranezza. In secondo luogo mi è venuto di ricordare un episodio della sua vita, uno di quegli episodi che lo hanno profondamente amareggiato: la lite epistolare con Godard, dai toni accesi e violenti da ambo le parti. Una lite che segnò la definitiva irreparabile rottura tra i due. Mi sarebbe venuto spontaneo di rassicurare Truffaut che sicuramente nella lite aveva avuto le sue profonde ragioni di fronte alla insensatezza delle argomentazioni del suo avversario.
Poi, pensando al luogo ove oggi “riposa”, ho pensato che a poche centinaia di metri si trovano le strade ove si è svolta la sua fanciullezza e la giovinezza, alcune delle quali ritroviamo ne I 400 colpi e che vengono filmicamente citate in altri suoi film.
Non so se per un caso o intenzionalmente, vicinissimo alla tomba di Truffaut, si trova, da appena una ventina di giorni, quella di Jeanne Moreau: mi è apparsa una tomba completamente sommersa di fiori bianchi ormai quasi sfioriti e tanti messaggi di saluto. Truffaut ha sancito la definitiva affermazione dell’attrice con lo splendido La sposa in nero, regalandole una parte che, rivedendola ancora oggi, sembra creata a bella posta dal regista per valorizzare in pieno le sue grandi capacità di attrice un po’ profondamente seria e un po’ istrionica, sempre sul filo dell’ambiguità che la hanno contraddistinta nella costruzione di ogni suo personaggio.
Un po’ più lontano ho notato il nome di Jean Claude Brialy: ricordo che non ha vissuto bene i suoi ultimi anni di vita, perché non accettava di essere stato messo in disparte dal mondo del cinema. E ho ricordato una lite con alcuni personaggi per non essere stato invitato al Festival di Cannes: è una cosa che lui non poteva sopportare né tanto meno accettare. Aveva lavorato con grandissimi registi e con lo stesso Truffaut nel tentativo di film prima dell’esordio, intitolato Un histoire d’eau del 1958, un montaggio improvvisato di riprese girate a caso, fino al vero e proprio esordio del regista l’anno successivo con I 400 colpi, e poi ne La sposa in nero, con la stessa Jeanne Moreau.
Ho pensato infine che si sarebbe potuto scrivere un capitolo intitolato Truffaut e la morte: niente di pesante o di tragico. Ma la necessità di ricordare un suo film che viene quasi sempre trascurato e considerato come “minore”. M riferisco a La camera verde tratto dalla fusione di tre racconti di Henry James, uno dei film che Truffaut ha voluto interpretare di persona, ritagliandosi il ruolo del protagonista della storia, Julien, redattore di un giornale e specializzato soprattutto negli annunci funebri. 
Da anni ha il cuore lacerato per la perdita della giovane moglie e le riserva, nella sua casa, una camera dedicata al suo ricordo. Ma più che il ricordo interessa a Julien (e allo stesso Truffaut) la lotta contro l’oblio: ben presto dedica un luogo a tutte le persone che egli ritiene non debbano assolutamente essere dimenticate e in questo riesce a farsi aiutare da una giovane donna, Cecile, con la quale intrattiene un rapporto di complicità, ma anche di profonda ambiguità. Ogni persona da ricordare viene simboleggiata da una candela davanti ad una fotografia e in questo modo la camera verde diventa la camera ove si celebra la volontà, del tutto laica, di non dimenticare. Ecco dunque come Truffaut, con l’aiuto letterario di James, ha trattato la morte, ne ha avuto dimestichezza, si è come abituato ad essa, facendone il centro e il cuore di un bellissimo film.
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